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Donazioni: approvata la riforma

Acquirenti tutelati, abolita l’azione di restituzione

La recente evoluzione normativa che ha interessato la circolazione degli immobili donati ha generato una diffusa, e talvolta pericolosa, sensazione di sicurezza. È vero: la nuova legge ha abolito la cosiddetta “azione di restituzione” nei confronti del terzo acquirente dal donatario. Questo significa che chi compra una casa da una persona che l’ha ricevuta in dono è oggi più tutelato rispetto al passato. Tuttavia, commettere l’errore di pensare che i rapporti tra il donante (chi regala) e il donatario (chi riceve) siano diventati intoccabili sarebbe un grave sbaglio di valutazione giuridica. L’abolizione dell’azione verso i terzi non intacca i rapporti interni tra le parti. Gli eredi legittimari possono sempre esperire l’azione di riduzione per lesione della legittima e, aspetto ancora più stringente per la vita quotidiana, il donante mantiene intatto il diritto di chiedere la revoca della donazione. L’intestazione di un immobile a un figlio, sia essa una donazione diretta o indiretta (come quando il genitore paga il prezzo ma intesta il bene al discendente), resta un atto di liberalità revocabile. Non basta aver ricevuto le chiavi di casa per sentirsi al sicuro: la legge impone obblighi morali e giuridici precisi, la cui violazione può portare alla restituzione del bene. Il cuore della disciplina che regola il “ritorno” del bene al proprietario originario risiede nell’istituto della revoca. L’ordinamento giuridico italiano ammette la possibilità di riottenere la proprietà di un immobile donato al proprio figlio solo in circostanze specifiche e tassativamente previste. Tra queste, l’ipotesi più rilevante e statisticamente frequente nelle aule di tribunale è la revocazione per ingratitudine, disciplinata dall’articolo 801 del Codice Civile. Non siamo di fronte a una valutazione soggettiva di “cattivo comportamento”. La norma richiede che il donatario si sia reso colpevole di atti di particolare gravità. Come specificato dalla giurisprudenza, non basta un litigio o un rapporto teso. La legge esige la dimostrazione di comportamenti che rivelino una profonda ingratitudine reiterata e manifestata in pubblico. L’elemento centrale è l’ingiuria grave verso il donante. La giurisprudenza ha fornito una lettura molto rigorosa di questo concetto. Non si tratta di un semplice mancato rispetto formale, ma di un comportamento che manifesti un durevole sentimento di disistima delle qualità morali del donante. Deve trattarsi di un atteggiamento che contrasta radicalmente con quel senso di riconoscenza che dovrebbe essere la naturale conseguenza del dono ricevuto. Secondo la Cassazione, l’ingiuria deve essere un comportamento suscettibile di ledere in modo rilevante il patrimonio morale del donante. Un aspetto fondamentale, spesso sottovalutato, è che tale avversione deve essere esteriorizzata, ovvero resa palese a terzi. Un esempio concreto aiuta a comprendere la soglia di gravità richiesta: i giudici hanno ritenuto sussistente l’ingiuria grave nel caso di un figlio che, dopo aver ricevuto l’immobile, ha avviato un’azione legale per sfrattare la propria madre, sapendo che questa era priva di altre risorse economiche o abitative. Al contrario, la semplice richiesta di rilascio di un immobile concesso in comodato non è stata ritenuta sufficiente per far scattare la revoca. L’articolo 801 del Codice Civile non si ferma all’ingiuria. Esistono altre condotte che giustificano la riacquisizione del bene da parte del genitore. Una di queste è il grave pregiudizio doloso arrecato al patrimonio del donante. Anche in questo caso, come sottolineato da ampia giurisprudenza, è necessaria l’intenzionalità del danno. Non basta una cattiva gestione del bene; serve la volontà di colpire economicamente chi ha effettuato la donazione. Un’altra ipotesi tassativa è l’indebito rifiuto degli alimenti. Se il donante si trova in uno stato di bisogno economico e il figlio donatario, pur essendovi tenuto per legge, si rifiuta senza giustificazione di prestare gli alimenti, si configura quella ingratitudine che legittima la revoca. Infine, la legge prevede la revoca nel caso di commissione di reati gravi, richiamando i fatti previsti dall’articolo 463 del Codice Civile che determinano l’indegnità a succedere (come l’omicidio tentato o consumato ai danni del donante o dei suoi congiunti). È essenziale notare un limite temporale stringente: l’azione di revocazione per ingratitudine deve essere proposta entro il termine di un anno dal giorno in cui il donante è venuto a conoscenza del fatto grave. I comportamenti antecedenti alla donazione sono irrilevanti, poiché si presume che il donante li abbia “perdonati” al momento dell’atto. Esiste una seconda macro-categoria che permette la revoca: la sopravvenienza di figli. L’articolo 803 del Codice Civile consente di revocare le donazioni fatte da chi, al tempo dell’atto, non aveva o ignorava di avere discendenti. La logica della norma è tutelare il donante che, scoprendo nuove responsabilità familiari, potrebbe voler riconsiderare la propria generosità. Tuttavia, bisogna prestare molta attenzione all’applicazione pratica di questa norma. Come chiarito dalla giurisprudenza, questa causa non è applicabile se la donazione è stata fatta proprio a un figlio. Se il genitore era a conoscenza dell’esistenza del discendente al momento dell’atto, non può successivamente invocare la sopravvenienza di altri figli (o il riconoscimento di un figlio naturale) per revocare la donazione fatta al primo. La conoscenza preesistente della genitorialità blocca l’operatività di questo istituto. Quando la domanda di revocazione viene accolta dal giudice, l’efficacia della donazione viene meno con effetto retroattivo tra le parti. Le conseguenze pratiche sono immediate: il donatario deve restituire l’immobile in natura, se questo esiste ancora nel suo patrimonio. Inoltre, è tenuto a restituire i frutti percepiti (come eventuali canoni di locazione) a partire dal giorno della domanda giudiziale, secondo quanto disposto dall’articolo 807 del Codice Civile. Cosa accade se il figlio ha già venduto la casa? Qui torna in gioco la distinzione fondamentale introdotta dalla recente normativa e citata in apertura. Se il donatario ha alienato il bene a terzi prima della trascrizione della domanda di revocazione, i diritti del terzo acquirente sono fatti salvi. Il compratore non perde la casa. Tuttavia, il donatario non è esente da responsabilità: è tenuto a restituire al donante il valore del bene, calcolato al momento della domanda di revoca. Il debito, dunque, si sposta dall’oggetto (la casa) al denaro (il controvalore). Per un’analisi precisa, è doveroso distinguere la revoca da altri istituti che spesso vengono confusi nel linguaggio comune ma che hanno presupposti giuridici totalmente diversi. L’azione di riduzione non è uno strumento per il donante che ha cambiato idea. Essa spetta esclusivamente ai legittimari (coniuge, altri figli) dopo la morte del donante, qualora la donazione abbia leso la loro quota di eredità legittima. La giurisprudenza ribadisce che questa azione mira a reintegrare la quota lesa rendendo inefficace la donazione nei limiti necessari. Diversa ancora è l’azione revocatoria ordinaria (o actio pauliana). Questa è l’arma dei creditori del donante, non del donante stesso. Se un genitore dona una casa per sottrarla alle garanzie dei creditori (ad esempio una banca), questi possono agire per rendere l’atto inefficace nei loro confronti. La Cassazione Civile conferma che lo scopo è preservare la garanzia patrimoniale. Infine, esistono i vizi originari dell’atto. Una donazione può essere dichiarata nulla se manca l’atto pubblico (articolo 782 c.c.) o se ha per oggetto un immobile abusivo. Può essere annullabile se il donante era incapace di intendere e di volere al momento della firma. In questi scenari non si parla di revoca per fatti sopravvenuti, ma di invalidità genetica dell’atto. Non bisogna dimenticare che il legame creato dalla donazione può essere sciolto anche pacificamente. Esiste la possibilità della revoca per mutuo consenso, dove donante e donatario concordano di annullare gli effetti dell’atto, facendo rientrare il bene nel patrimonio del primo. Inoltre, l’atto stesso può contenere clausole di salvaguardia. L’articolo 792 del Codice Civile prevede il “patto di riversibilità”, che fa tornare i beni al donante se il donatario muore prima di lui. Altra figura è la donazione modale, gravata da un onere; tuttavia, come precisato dalla Cassazione, l’inadempimento dell’onere porta alla risoluzione della donazione solo se tale conseguenza è stata espressamente prevista nel contratto. In sintesi, la “nuova legge” ha certamente blindato la posizione di chi acquista da un donatario, eliminando il timore dell’azione di restituzione verso i terzi. Ma per il figlio che riceve il bene, il vincolo di gratitudine e correttezza verso il genitore resta un obbligo giuridico pregnante, la cui violazione, sotto forma di ingratitudine, può costare molto cara: la perdita dell’immobile o del suo valore economico.

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